La Repubblica, 4 giugno 2013
I vegetariani vivono di più, lo dice anche la scienza!
di Elena Dusi
Uno stile di vita che dovrebbe essere più promosso, perché è estremamente salutare anche per il territorio e le economie locali.
«Dovremmo diventare tutti vegetariani? » si chiede l’editoriale di oggi su Jama, il Journal of the American Medical Association. Ad ascoltare la voce dei numeri, la risposta giusta sembrerebbe sì. Chi elimina completamente la carne dalla dieta si ammala di meno e vive di più, conferma lo studio su 70 mila persone pubblicato dalla rivista medica. E chi a frutta e verdura associa il pesce vede migliorare ulteriormente la propria salute. La dieta senza carne permette di schivare soprattutto le malattie cardiovascolari, ma anche il diabete e — novità mai emersa in studi precedenti — l’insufficienza renale.
Secondo il rapporto Eurispes di febbraio, il 4,9% degli italiani è vegetariano e l’1,1% vegano. Le due categorie sono cresciute del 2% rispetto a un anno fa. Le motivazioni per evitare la carne nel nostro Paese sono soprattutto ideologiche (sensibilità per la sofferenza degli animali). Ma sui benefici per la salute di questa scelta le prove si vanno accumulando di anno in anno. I vegetariani, spiega oggi Jama, hanno un rischio di ammalarsi e morire nel prossimo anno di vita ridotto del 12% rispetto a chi mangia carne. Scavando nella categoria, si osserva che la dieta di frutta, verdura e pesce dà la protezione massima: meno 19% del rischio. I vegani si piazzano al secondo posto con un meno 15%. Aggiungere uova e latte abbassa il rischio al 9%. E una dieta vegetariana non rigorosa, con un piatto di carne alla settimana, assottiglia il beneficio all’8%.
A godere di più per la dieta di frutta e verdura è il cuore. I dati sulla riduzione del cancro sono invece modesti. E l’allungamento della vita si fa sentire più sugli uomini che non sulle donne, già gratificate da una vita media più lunga. I ricercatori della Loma Linda University in California sono arrivati a questi risultati seguendo 73 mila volontari canadesi e statunitensi, che per sei anni hanno compilato dei questionari sulla loro alimentazione quotidiana. Tutti gli individui del campione appartengono alla confessione degli avventisti del settimo giorno. In genere i ricolpiti cercatori preferiscono studiare coorti con un background socioculturale omogeneo perché ritengono che i comportamenti siano più simili e i risultati abbiano meno distorsioni.
Nel caso degli avventisti, i vegetariani tendono a essere più longevi dei mangiatori di carne. Hanno anche un livello di istruzione mediamente superiore e sono più attenti alla salute: non bevono, non fumano e praticano sport regolarmente. L’effetto positivo della dieta a base di frutta e verdura potrebbe confondersi fra gli altri comportamenti virtuosi della categoria. E i ricercatori guidati da Michael Orlich sono i primi ad ammettere: «La dieta vegetariana è associata a una ridotta mortalità. Ma non è ben chiaro se la relazione sia di causa ed effetto». Che ridurre la carne, soprattutto quella rossa, faccia bene (specialmente al cuore) è comunque un’osservazione assodata da tempo. In Europa è in corso uno degli studi più vasti del mondo, che si chiama Epic e coinvolge 520 mila persone in dieci Paesi. L’ultimo risultato, pubblicato dall’università di Oxford, è che il rischio di essere da un infarto nel corso della vita si riduce di un terzo mangiando solo frutta e verdura. A settembre dell’anno scorso era stata la rivale Cambridge a pubblicare uno studio sul British Medical Journal.
Vi si calcolava che ogni 50 grammi in più al giorno di carne rossa o processata aumenta il rischio di ammalarsi di cuore del 42%, di diabete del 19% e di tumore all’intestino del 18%. Ma la carne non è l’unica fonte dei guai di salute, ricorda nell’editoriale di Jama Robert Baron, professore di medicina all’università della California di San Francisco e vegetariano della prima ora (cioè dagli anni 70). «Sulla quantità ideale di carne da includere nella dieta il dibattito è aperto. Ma nessuno dubita che vadano evitati bevande zuccherate, cereali non integrali, grassi saturi e transaturi».
Postilla
Come insegnano infiniti studi, locali e non, legati alla cosiddetta dieta delle cento miglia o del suo equivalente territoriale chilometro zero, c'è un rapporto concreto diretto fra organizzazione spaziale e ciò che finisce sulla nostra tavola, semplicemente mediato dalla nostra capacità o possibilità di investire tempo, denaro, risorse nella modifica di tale rapporto. Il risultato finale, oggi perverso, di questa relazione, è il fatto che una dieta a base di prodotti del ciclo alimentare industriale globalizzato (carni rosse, cibi lavorati, merendine ecc.) costa assai meno al portafoglio di quanto non accada per i prodotti, poniamo, dell'agricoltura periurbana locale, della trasformazione artigianale, di tutto quanto insomma risulta integrabile entro un equilibrio territoriale ragionevole. Ad esempio quello che si delinea quasi sempre nelle discussioni sul contenimento dell'urbanizzazione e del consumo di suolo. Di cui il ciclo dell'allevamento intensivo è uno dei principali nemici, e rammentiamo sempre che allontanare il problema (in Amazzonia o simili) finisce per aggravarlo, e le produzioni del ciclo di allevamenti locali sono ben lontane dal garantire il genere di consumi attuali. Forse dire che mangiare carne fa male al territorio più che guidare un Suv può risultare schematico, ma si avvicina molto alla verità (f.b.)